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«Questo è ciò che la nostra classe dirigente ha deciso che sarà normale»: Ricordando Aaron Bushnell

Il 25 febbraio 2024, un aviere di 25 anni dell’Aeronautica statunitense di nome Aaron Bushnell si diresse con calma verso i cancelli dell’Ambasciata israeliana a Washington, D.C. In uniforme militare, parlò sottovoce a una diretta streaming:

«Sono un membro attivo dell’Aeronautica degli Stati Uniti e non sarò più complice di un genocidio. Sto per compiere un atto di protesta estremo, ma rispetto a ciò che il popolo di Palestina sta vivendo per mano dei suoi colonizzatori, non è affatto estremo. Questo è ciò che la nostra classe dirigente ha deciso che sarà normale.»

Pochi istanti dopo, si diede fuoco. Mentre le fiamme lo avvolgevano, gridò più e più volte: «Free Palestine!»

Aaron Bushnell morì alcune ore dopo. Il suo corpo perì, ma le sue parole accesero una conversazione globale su coscienza, complicità e il prezzo del silenzio morale.

Un martire della coscienza

Chiamare Aaron Bushnell martire significa riconoscere che morì per una verità che non poteva più negare. Il suo gesto non nacque dalla disperazione, ma dalla convinzione — un rifiuto radicale di vivere nell’ipocrisia morale che vedeva intorno a sé.

Bushnell comprendeva il meccanismo del potere. Da aviere semplice, aveva visto come l’obbedienza e la burocrazia sostengano guerre lontane, come la sofferenza dei civili venga ridotta a statistiche e come i sistemi sanitizzino la crudeltà con termini come «sicurezza nazionale» e «danni collaterali».

Ma la sua ribellione non fu solo pubblica; fu anche straziante e personale. Prima di morire, donò tutti i suoi risparmi al Palestine Children’s Relief Fund, un’organizzazione che fornisce cure mediche e aiuti ai giovani vittime di guerra. Dispose anche che un vicino si prendesse cura del suo amato gatto, assicurandosi che persino nel suo ultimo atto di protesta la compassione guidasse ogni decisione.

Gesti del genere rivelano che la sua protesta non fu un rifiuto della vita, ma una sua difesa.

Nei giorni precedenti la morte, pubblicò online:

«Molti di noi amano chiedersi: “Cosa avrei fatto se fossi vissuto durante la schiavitù? O nel Sud di Jim Crow? O sotto l’apartheid? Cosa avrei fatto se il mio Paese stesse commettendo un genocidio?” La risposta è: lo state facendo. Proprio ora.»

Quella dichiarazione fu confessione e sfida insieme — uno specchio tenuto davanti a una società che si vanta della retrospezione morale mentre tollera atrocità contemporanee.

La normalizzazione dell’impensabile

L’avvertimento gelido di Bushnell — «Questo è ciò che la nostra classe dirigente ha deciso che sarà normale» — non fu iperbole. Fu diagnosi. Vide un mondo in cui la distruzione di interi quartieri a Gaza, la fame dei civili e l’uccisione di bambini potevano essere giustificate con il linguaggio della politica e della difesa.

Per lui l’orrore non stava solo nella violenza stessa, ma in quanto facilmente quella violenza venisse spiegata. Quando i governi violano i diritti umani impunemente e il pubblico lo accetta come rumore di fondo della geopolitica, allora l’atrocità è davvero diventata ordinaria.

L’atto di Bushnell fu un rifiuto di accettare quella nuova normalità. Il suo fuoco dichiarò: «No, questo non può essere normale.»

L’autorità infranta del diritto internazionale

Al cuore della protesta di Bushnell non c’era solo l’empatia per Gaza, ma la paura per il futuro dell’umanità. Una volta infrante senza conseguenze le norme del diritto internazionale — contro la punizione collettiva, il bersagliamento dei civili o la fame come arma di guerra — il precedente invita al collasso globale.

Sembrava capire che l’erosione della responsabilità in un conflitto minaccia ogni nazione successiva. Quando la legge diventa selettiva, quando la giustizia è condizionata, la moralità stessa diventa negoziabile. La sua morte fu così un grido morale e un avvertimento profetico: il mondo non può reggere se il potere può uccidere senza vergogna.

L’eco della coscienza: una discendenza di avvertimento morale

Le parole di Bushnell appartengono a una tradizione duratura di pensatori che hanno insistito che il male prospera non sull’odio, ma sull’indifferenza. Le sue riflessioni risuonano attraverso i tempi — con l’umanesimo di Einstein, il realismo politico di Burke e la testimonianza morale di Elie Wiesel — ciascuno affrontò la questione della complicità nella propria era.

Quando Bushnell scrisse:

«Molti di noi amano chiedersi: “Cosa avrei fatto se fossi vissuto durante la schiavitù? O nel Sud di Jim Crow? O sotto l’apartheid? Cosa avrei fatto se il mio Paese stesse commettendo un genocidio?” La risposta è: lo state facendo. Proprio ora.»

si unì a quella discendenza — trasformando la retrospezione morale della storia in un’accusa al presente.

Einstein: il costo dell’osservare

La citazione spesso attribuita ad Albert Einstein, benché non verificata, cattura il significato di Bushnell:

«Il mondo non sarà distrutto da chi fa il male, ma da chi lo guarda senza fare nulla.»

Entrambi gli uomini riconobbero che il male raramente si annuncia; si insinua nella vita quotidiana attraverso la rassegnazione e l’obbedienza. Bushnell rifiutò di essere uno spettatore. Il suo atto fu la negazione definitiva della passività — una dichiarazione che il silenzio stesso è un’arma nelle mani dei potenti.

Burke: la passività letale degli «uomini buoni»

L’avvertimento famoso di Edmund Burke riecheggia ancora:

«L’unica cosa necessaria per il trionfo del male è che gli uomini buoni non facciano nulla.»

Il messaggio di Bushnell dà a quell’idea nuova urgenza. Gli «uomini buoni» del suo tempo non erano malvagi, ma cittadini, professionisti e soldati che sostenevano silenziosamente sistemi di distruzione. Dicendo «Lo state facendo. Proprio ora», Bushnell infranse l’illusione confortante che la complicità sia neutra. Non lo è. È una partecipazione attiva al danno attraverso l’inazione.

Wiesel: la morte dell’empatia

E nelle parole inquietanti di Elie Wiesel dal suo discorso Nobel del 1986:

«L’opposto dell’amore non è l’odio, è l’indifferenza.»

Per Wiesel, l’indifferenza permise Auschwitz; per Bushnell, l’indifferenza permette che Gaza bruci. Entrambi videro che il pericolo maggiore non è la rabbia, ma l’intorpidimento morale che consente alle atrocità di svolgersi mentre il mondo guarda attraverso gli schermi.

La voce di Bushnell si unisce alla loro — non in teoria, ma nella fiamma.

Testimonianza attraverso il fuoco

Nel corso della storia, l’autoimmolazione è stata la forma più estrema di testimonianza — dal silenzio di Thích Quảng Đức a Saigon ai monaci tibetani che si diedero fuoco per la libertà. Ogni atto traduce un grido morale nel linguaggio universale della sofferenza.

Aaron Bushnell si unì a quella discendenza di testimonianza radicale. Le sue fiamme non furono solo simbolo di indignazione, ma un tentativo di risvegliare la coscienza anestetizzata dei potenti. Non cercò di distruggere altri — solo di ricordarci che la vita stessa viene distrutta in nostro nome.

Non parlò di vendetta, ma di liberazione — non di disperazione, ma di solidarietà.

Il peso che lascia

Ricordare Aaron Bushnell significa portare un pesante responsabilità. La sua vita esige che affrontiamo la nostra complicità nei sistemi che abitiamo. Quanti di noi, chiede dall’aldilà, continuano ad accettare come «normale» ciò che dovrebbe invece inorridirci?

Non lasciò manifesto, né organizzazione — solo l’esempio di un essere umano che rifiutò di normalizzare l’atrocità. Assicurò che il suo gatto fosse al sicuro, donò i suoi risparmi a bambini intrappolati in una zona di guerra e entrò nella storia come un punto interrogativo vivente: Cosa faresti tu?

Il suo avvertimento, «Questo è ciò che la nostra classe dirigente ha deciso che sarà normale», non è solo un’accusa alle élite. È uno specchio per tutti noi. Perché ciò che viene normalizzato dall’alto sopravvive solo perché accettato dal basso.

Epilogo: una fiamma che rifiuta di spegnersi

L’ultimo atto di Aaron Bushnell non fu una fine, ma un’apertura — una lacerazione nel tessuto della negazione collettiva. La sua morte ci ricorda che la coscienza esiste ancora, anche se sepolta sotto la macchina dell’impero.

Fu un soldato che scelse l’umanità invece dell’obbedienza. Fu un uomo che assicurò che il suo gatto vivesse al sicuro mentre lui camminava nel fuoco. Fu un cittadino che rifiutò di accettare che il genocidio potesse mai essere «normale».

«Questo è ciò che la nostra classe dirigente ha deciso che sarà normale.»

Lasciate che quelle parole echeggino in ogni sala di governo, redazione e casa silenziosa. Non sono solo il suo avvertimento — sono il nostro giudizio.

Ricordare Aaron Bushnell significa rifiutare di vivere come se la sua protesta fosse vana. Il suo fuoco ci chiama a svegliarci, ad agire e a porre fine alla normalizzazione dell’inumanità prima che ci consumi tutti.

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